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Il bestiario della «femminilità tossica» nelle sue varianti

Matrigne, streghe, incantatrici, maghe, arpie, megere, sirene, fate. La redenzione possibile

Cristina Tamburini di Cristina Tamburini
04/03/2020
in Cultura
784
Reading Time: 5 mins read
0
La strega di

Image by Pixabay

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Last updated on marzo 5th, 2020 at 03:56 am

Esiste il maschio tossico, “iFamNews” se n’è occupato, raccontando l’ideologia che odia gli uomini. Ma, la domanda sorge spontanea, esiste anche una femminilità tossica?

Marracash, rapper e produttore discografico italiano, ne è convinto, come afferma nell’intervista rilasciata a Daria Bignardi in cui dichiara la fine del «dominio maschile sulle donne». Il cantante fa riferimento al suo essere «vittima» di una ex compagna, come racconta nel brano Crudelia: lei è una “predatrice” che freddamente calcola le proprie mosse, lui la vittima che subisce inganni, urla, risse per la strada. Che arriva a “piangere” per averle dato tutto, mentre lei gli ha dato «solo il suo corpo».  L’immagine di “femmina tossica” che emerge è quella di una donna che usa le armi proprie della femminilità (in particolare armi seduttive) per “prendere possesso” di un uomo: si tratta raramente di una violenza fisica, men che meno sessuale (anzi, la donna tossica usa della propria sessualità come strumento di sottomissione dell’uomo), piuttosto di una violenza psicologica. Qualcosa di simile afferma la biologa evoluzionista statunitense Heather E. Heying, docente all’Evergreen State College di Olympia, nello Stato di Washington, fino al 2017 e licenziatasi, assieme al marito biologo Bret Weinstein, in seguito alle controversie sul «Day of Absence», una sciocca usanza sfruttata in questo caso per tacciare la coppia di razzismo e relegarla nell’«Intellectual Dark Web». Parlando della femminilità tossica, la Heving evidenzia il comportamento di quelle donne che «gridano al delitto, castigando gli uomini che rispondono a un’esibizione provocatoria». Molto esplicitamente, la biologa afferma: «quando le donne si vestono in abiti che mettono in risalto l’anatomia di cui la sessualità le ha dotate e si truccano suggerendo un orgasmo imminente è tossico ‒ sì, tossico ‒ esigere che gli uomini non guardino, non si avvicinino, non si interroghino».

Le molte declinazioni

Esistono peraltro diverse letture della «femminilità tossica»: in mancanza di una precisa definizione psicologica – presente invece per il concetto di «mascolinità tossica» – vengono definite così anche le donne che abbracciano i medesimi stereotipi che considerano il maschio “dominate”: quelle che pretendono venga pagata loro la cena, il mantenimento economico, il trattamento “cavalleresco” da uomini pronti a riempirle di complimenti e a fare a botte per loro. La femminilità tossica sarebbe, in blocco, quella che riconosce una “natura” femminile, in particolare di fragilità e di accoglienza, che andrebbe invece rigettata in toto. Una specie di “seconda faccia” della mascolinità tossica: la donna sottomessa, dedita al marito e ai figli, compatibile, insomma, con il “maschio alfa” considerato, per l’appunto, “tossico”.

Esiste un ambito di teorizzazione della tossicità femminile che si occupa in particolare della maternità – in questo campo il Signor Distruggere meriterebbe la laurea honoris causa –, ambito che ancora fa riferimento alla “cultura patriarcale”. Sono le cosiddette «pancine», donne principalmente di bassa estrazione sociale, scarsamente istruite, che riconoscono nella maternità l’unica vera forma di realizzazione della propria femminilità. Arrivando a comportamenti realmente grotteschi, queste donne risultano profondamente ignoranti riguardo alla conoscenza del proprio corpo e della sessualità in generale, molto aggressive nei confronti di tutto ciò che è “diverso” da sé e dalla propria autocelebrazione di “angeli del focolare”.

Abbiamo dunque seduttrici senza scrupoli che soggiogano poveri maschi pieni di emotività e di sentimenti, donne schiave di maschi tossici violenti e privi di sfera affettiva, e casalinghe ignoranti frustrate – nonché disperate –, che riconoscono nella maternità l’unico ambito di soddisfazione possibile. L’immaginario si può arricchire: donne in carriera che si comportano come i peggiori maschi tossici, usando del proprio potere per svilire e umiliare i sottoposti (di entrambi i sessi), madri “tigri” inflessibili e autoritarie… Probabilmente si potrebbe procedere all’infinito nel “bestiario” delle femmine che hanno in qualche modo avvelenato la propria femminilità. In fondo, si sa, le donne sono molto più versatili degli uomini: possono stravolgere in modi molto più fantasiosi e creativi la ricchezza del proprio specifico ruolo “di genere”.

Anche nell’immaginario fantastico, infatti, possiamo riconoscere le matrigne, le streghe, le incantatrici, le maghe, le arpie, le megere, le sirene, le fate – che possono mostrare caratteristiche ambivalenti, basti pensare alla Campanellino di Peter Pan – tutte figure femminili che, in modi molto differenti, portano con sé un’ombra di negatività.

Anche la “matrigna” può esser salvata?

Se esiste, dunque, una “femminilità tossica”, cosa la genera? Fa strano doverlo ammettere, ma Marracash viene in aiuto: «Se non sei amato da ragazzino non vieni su bene […] credo che l’amore sia una cosa che si impara, se non te lo insegnano un po’ pazzo lo diventi, e anche un po’ pericoloso». Pare proprio questo il “veleno” capace di infettare – più di altri virus oggi alla ribalta – maschi e femmine allo stesso modo: il mancato riconoscimento che l’amore non sia qualcosa di spontaneo, un’emozione che “si sente”. Piuttosto «una cosa che si impara», che va educata, la cui mancanza produce variegati tentativi di pretendere e di estorcere con le armi più disparate quel che si desidererebbe ricevere gratuitamente, nell’incapacità di – altrettanto gratuitamente – dedicare sé e le proprie capacità «in vista del bene comune e della perfezione del singolo».

Cosa mette in salvo, dalla tossicità, dunque, che sia maschile o femminile? Un’esperienza di bene, ricevuto e identificato, entro l’ambito delle virtù della dipendenza riconosciuta: avere sperimentato una soddisfazione, un compimento di sé che non sgorghi da un possesso, da un dominio, da una sterile affermazione, ma, al contrario, da una gratuità. Essere oggetto di un tale amore genera effetti collaterali importanti: permette addirittura di diventare protagonisti di altrettanti gesti di gratuità. L’antidoto necessario, oggi, alle molteplici forme di avvelenamento diffuse nel mondo.

Tags: Heater E. HeyingMarracashSignor Distruggere
Cristina Tamburini

Cristina Tamburini

Cristina Tamburini, laureata in Filosofia con una tesi in Antropologia filosofica sull'utilitarismo contemporaneo, moglie e mamma di sette figli, non ha mai abbandonato lo studio e la passione per l’antropologia filosofica, l’etica e la bioetica. Ha tradotto in italiano diversi testi, fra i quali Azione e condotta: Tommaso d’Aquino e la teoria dell’azione di Stephen L. Brock e Intenzione di G. Elizabeth M. Anscombe, estendendo i propri interessi alla Teologia (in particolare all’Escatologia e alla Dottrina sociale della Chiesa). Ha curato il blog Sì, sono tutti miei! per raccontare e approfondire il maternage e la quotidianità in una famiglia numerosa.

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